Occuparsi di economia e strategia in questi anni è molto difficile. Ci si sente spesso una Cassandra in grado di prevedere il futuro, ma non si trova nessuno disposto ad ascoltare, è come essere su un autobus con il conducente, sordo ad ogni invocazione, che procede spedito verso un futuro fosco e pieno di incertezze. Da un lato l’economia sempre più orientata alla globalizzazione e alle multinazionali, e dall’altro lo Stato, preoccupato delle situazioni contingenti, che trova sempre meno tempo per occuparsi di strategia e pianificazione di lungo periodo. Il principale compito dello Stato è quello di preoccuparsi del benessere dei propri cittadini, consentendo a tutti i cittadini di condurre un tenore di vita dignitoso, offrendo la possibilità di costruirsi un futuro migliore del presente. Le preoccupazioni finanziarie, però, costituiscono un facile alibi per sostenere una politica con un limitato orizzonte temporale, orientata al contenimento della spesa e non agli investimenti produttivi e all’uguaglianza sociale.
I vincoli di bilancio, la crisi economica, i diktat europei, sono sicuramente un limite alla capacità di pianificazione strategica del nostro Paese, però non devono essere una scusa per rinunciare a priori, al ruolo di indirizzo dell’economia che spetta ad un Governo sovrano. Assistiamo ogni giorno ad uno spopolamento dei nostri centri rurali e montani, con una migrazione continua verso le città, quelle tanto incensate smart city, che in realtà sono sempre più inique e ingestibili[1].
Altro aspetto preoccupante è costituito dalle dinamiche di crescita della popolazione. Nel 2017[2] il tasso di mortalità ha toccato il 10.7 ‰ mentre il tasso di natalità si è fermato al 7,7‰, il che si traduce in una diminuzione della popolazione residente del 3‰ (pari a circa 180.000 persone all’anno) compensato quasi integralmente dal saldo migratorio, che però non ha potuto evitare una diminuzione, nel 2016, della popolazione italiana di 76.000 unità.
Analizzando meglio i dati, però, si rileva che, in Italia, l’età media della popolazione è passata da 44,2 anni nel 2014 a 44,9 nel 2017 e si prevede che nel 2018 tocchi i 45,2 anni. L’invecchiamento della popolazione è una conseguenza della scarsa natalità che l’immigrazione ormai fatica a compensare (molti immigrati hanno ormai più di 20 anni quando arrivano in Italia). Secondo l’ISTAT si prevede che la popolazione italiana passerà dagli attuali 60,6 milioni di abitanti ai 54,1 milioni del 2065. Altro dato su cui riflettere è rappresentato dall’emigrazione; nel 2016 ben 114.512 cittadini italiani si sono trasferiti all’estero; molti di questi avevano la laurea (circa il 30% secondo i dati ISTAT). Se a questo aggiungiamo che il numero di laureati in Italia è il più basso d’Europa, con una percentuale rilevante di Lauree umanistiche, abbiamo il quadro completo.
Risulta evidente che il nostro Paese non investe sul proprio futuro, non investe sulla formazione, non offre opportunità alle menti migliori, che sono costrette ad emigrare all’estero.
L’aumento di immigrati con un basso grado di istruzione tende a creare concorrenza per i posti di lavoro più umili e meno pagati, rendendo sostenibili produzioni a basso valore aggiunto, che si pensava in via di estinzione nel nostro Paese. Nel contempo osserviamo che la Corea risulta essere il Paese con la percentuale (tra i giovani di età compresa tra i 25 ed i 34 anni) di laureati maggiore al mondo e quindi non possiamo non renderci conto delle carenze strategiche del nostro Paese. Il futuro, rappresentato da industria 4.0, meccatronica, robotica, miniaturizzazione, richiede menti brillanti e preparate, in grado di affrontare le sfide tecnologiche del futuro.
Sempre meno bambini, sempre meno laureati, sempre più anziani, sempre meno industrie, è questo il panorama che ci si presenta. A quali conseguenze ci esponiamo?
In alcuni settori ad alta specializzazione tecnologica, si assiste all’iniziativa di alcune aziende che aprono la propria scuola di formazione, per plasmare quei talenti che saranno necessari per lo sviluppo futuro del proprio business, ma non basta. Per competere con i Paesi più industrializzati ed invertire il percorso in discesa intrapreso, è necessario investire nella ricerca di base e nella formazione, in modo da creare quel substrato culturale in grado di sostenere l’innovazione tecnologica e favorire la nascita di aziende che operano in settori ad alto valore aggiunto. Il tempo a disposizione è poco, perché gli altri Paesi stanno recuperando rapidamente il gap infrastrutturale, culturale ed economico, che un tempo li separava dai Paesi più industrializzati. Secondo uno studio della Price Waterhouse Cooper, l’Italia, nel 2050, uscirà dalla top 20 delle economie più industrializzate.
Certo il PIL non è il miglior strumento per misurare il progresso economico di una Nazione, come è stato sostenuto anche Al World Economic Forum di Davos. Partendo da una domanda del premio Nobel per l’economia Amartya Sen[3], che si è chiesto: “di cosa hanno bisogno le persone per condurre il tipo di vita che desiderano?” sono stati presi in considerazione strumenti alternativi. Il benessere delle persone può essere misurato in termini della possibilità di disporre di un certo quantitativo di beni. Pertanto si valuta il progresso economico di una Nazione in termini di capitale Fisico (infrastrutture), capitale Umano (istruzione e competenze), capitale intangibile (brevetti, marchi etc.), capitale naturale (aria pulita, ecosistema salutare), capitale sociale (una comunità coesa e ben funzionante), capitale finanziario (ricchezza ed accesso al credito)[4]. È indubbio che si tratta, in alcuni casi, di parametri di difficile misurazione e comparazione, ma la loro analisi rende ancora più evidente la decadenza del nostro Paese.
Per uscire da questa situazione è necessario riscoprire il ruolo strategico dello Stato nell’indirizzare l’economia verso i settori più indicati a sfruttare le potenzialità e le competenze a disposizione nel Paese, costruendo quelle infrastrutture necessarie ad esaltare il patrimonio naturale e culturale a nostra disposizione.
Diceva Henry Ford: “Chi smette di fare pubblicità per risparmiare soldi è come se fermasse l’orologio per risparmiare il tempo”, oggi si potrebbe dire che: “Uno stato che non investe in infrastrutture e istruzione per problemi di bilancio, è come se chiedesse al treno del progresso di fermarsi ad aspettarlo”.
Per superare la crisi e ritornare a crescere, è imprescindibile riscoprire l’importanza della pianificazione di lungo periodo e la meritocrazia, sia in campo pubblico che privato. Analizzare gli scenari futuri e costruire, oggi, le competenze distintive che consentiranno di eccellere in campo economico sono necessità basilari per qualsiasi statista e per qualsiasi amministratore delegato. L’improvvisazione non è più possibile, i costi della mancata pianificazione superano di gran lunga i vantaggi economici di breve periodo, e rappresentano un pericolo per la sopravvivenza delle imprese e per la prosperità dei cittadini.
[1] Si legga a tale proposito l’articolo “Le città intelligenti non esistono” di Bruce Sterling riportato su “Internazionale” del 10 aprile 2018.
[2] Tutti i dati riportati sono Dati ISTAT
[3] Premio Nobel per l’Economia. Nato in India nel 1933
[4] Diane Coyle – https://www.weforum.org/agenda/2018/01/here-is-a-better-way-to-measure-growth-than-gdp/